L’Appetito è un Crimine

16 giugno 2013 ESSEN - A Taste Magazine

Errò, “Foodscape”. Una sterminata distesa di formaggi, dolci, salumi e tutto quello che si può desiderare di mangiare a crepapelle in un moderno paese di Bengodi.

Questa constatazione però dura un solo istante e ben presto lascia il posto ad una sensazione di inquietudine che cresce man mano che guardiamo la grande tela. È un’occhiata un po’ più attenta al cibo raffigurato che aumenta lentamente il nostro disagio: le tavole imbandite del Seicento, le nature morte fiamminghe, i banchetti di Veronese, le scene di vita quotidiana del Longhi dove comparivano alimenti diversamente realistici, naturali, sani, hanno lasciato il posto ad un panorama privo di orizzonte, di desolata opulenza, in cui si affolla una miriade di prodotti industriali ‘senza identità’, pur se differenti per forma, dimensioni, colori.

Errò, nato in Islanda nel 1932, parigino d’adozione e apolide per scelta, artista della figurazione narrativa, dissacrante e critico della società dei consumi di massa, nel 1964 dipinge una serie di grandi tele dal titolo “L’appétit est un crime”, tra le quali “Foodscape”. In una visione pingue e bulimica di un odierno paesaggio alimentare consumistico, si accumulano e convivono cibi e scatole, alimenti singoli e preparazioni finite: dai formaggi alle torte, dalla frutta alle confezioni di caramelle, Errò riproduce, moltiplicando esponenzialmente, tutto uguale a sé stesso in una fitta texture ottenuta dall’accumulazione di vivande coloratissime, impacchettate, sterilizzate, con forme tragicamente impeccabili. L’osservatore, alienato e smarrito, è di fronte all’ horror vacui, testimone dell’inconsistenza dell’alimentazione industrializzata che si fa ossessiva immagine pubblicitaria di sé stessa in cui i cibi si de‐materializzano a favore della propria immagine.

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In Foodscape non ha alcuna importanza ‘quale’ cibo sia raffigurato; non fa molta differenza se l’artista abbia scelto un emmenthal o un brie, se ci siano banane e fragole oppure kiwi e pesche. Il significato dell’opera sta nel ‘come’ il cibo viene raffigurato: è serialmente riprodotto come uscito da uno stampo, è uscito da uno stampo perché è cibo industriale, è un prodotto di massa, non diverso da una radio, un televisore, una macchina; il colore è saturo e timbrico, non esiste naturalezza e non c’è realismo, le proporzioni e le prospettive variano casualmente, concorrendo a provocare un forte senso di disorientamento. L’appiattimento uniforme e senz’anima che ne deriva è una full immersione nella società dei consumi.

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Se dal piano artistico ci spostiamo su un piano teorico (ma quantomai pragmatico) è impossibile non trasporre questa figurazione sull’asse della dimensione geografica del cibo.

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“Locale o globale?” è un dibattito infinito, di quelli predestinati; dal momento in cui nasce è in continua evoluzione, muta, si arricchisce, perde forza e rinvigorisce in un continuum senza fine.

 

Polenta e soppressa è local,l’hamburger è global ma può essere glocal se fatto in casa con materie prime di qualità del territorio, il maki è local in Giappone, ma se dentro ci metto una sarda in saòr che succede?…ah, già, diventa fusion.

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“Il mangiafagioli” di Carracci? Local. 

“200 Campbell’s Soup Cans” di Warhol? Global, naturalmente.

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Le nature morte di Van Dijck che guardano a Caravaggio…non sono fusion, sono forse glocal?

Ovviamente questo è un gioco provocatorio che si basa su un’unica e bizzarra regola, scindere lo spazio e il tempo dell’opera e nell’opera; non è reale, non si può fare ma è la regola del gioco.

Quando invece siamo di fronte a cibo reale, sia una fregolotta (meglio nota come “sbrisolona”) al pino mugo, un raviolo di riso cinese ripieno di casatella trevigiana o una pizza Hawaii ananas e bacon, ricordiamoci di usare un’altra semplice regola: pensiamo, perché quando smettiamo di farlo l’horror vacui di Errò è in agguato.

Ingredienti per 4 persone

per il maki

2 fogli alga nori, 125 gr. riso da sushi (o Roma in alternativa), 25 gr. aceto di riso, 20 gr. Zucchero, 6 gr. Sale, 170 gr. acqua

per la sarda

300 gr. Sarde fresche, 150 gr. cipolla bianca, 25 gr. uvetta, 30 gr. pinoli, aceto di vino, sale, pepe, olio

per il gel

1 mela verde, ½ limone, 5 gr. amido di riso, peperoncino, zucchero, sale.

Procedimento (fare tutto il giorno prima)

. lavare il riso in acqua fredda finché l’acqua risulta trasparente

. metterlo in casseruola, coprirlo con 170 gr. d’acqua, cucinare per 16-18 minuti

. preparare una miscela con l’aceto di riso, lo zucchero e il sale, portarlo a circa 80°

. scolare il riso, versare a filo la miscela facendola assorbire e sventolando il composto per raffreddarlo e far evaporare l’acqua

. friggere le sarde pulite, deliscate e leggermente infarinate, far raffreddare

. tagliare finemente la cipolla, brasarla lentamente con olio, zucchero, aceto e sale finché risulta morbida

. disporre le sarde, la cipolla, l’uvetta (precedentemente ammollata) e i pinoli a strati in una terrina di vetro come a comporre una lasagna

. fare un centrifugato di mela verde e limone e usare solo la parte trasparente del succo

. in un tegamino mettere l’amido di riso, il centrifugato, e gli altri ingredienti e portare lentamente e mescolando a consistenza gelatinosa.

Composizione

Disporre su una tovaglietta di bambù l’alga, il riso, la sarda (lasciando un bordo di almeno due centimetri dall’alto), arrotolare delicatamente e tagliare i maki con un coltello affilato e con la punta bagnata. Aggiungere una goccia di gel di mela on the top.

Articolo pubblicato originariamente su ESSEN – A Taste Magazine