Il Rifugio del Pane Piatto

3 febbraio 2013 ESSEN - A Taste Magazine

«Gli Israeliti mangiarono la manna per quarant’anni, fino al loro arrivo in una terra abitata, mangiarono cioè la manna finché furono arrivati ai confini del paese di Canaan.»
Esodo 16,35

Esordiamo con l’Esodo. Il gioco di parole è sciocco, lo so, eppure nella sua buffa cacofonia è una perfetta sintesi dell’hic et nunc.

State leggendo, in effetti, l’esordio di Panem Et Circenses che dopo migrazioni fisiche e digitali approda ad Essen. Certo, non abbiamo impiegato i quarant’anni serviti agli Israeliti per raggiungere la terra di Canaan, però negli ultimi tempi noi e il nostro cibo siamo stati sufficientemente  in movimento da considerarci “nomadi temporanei”. Già, temporanei, così come ci viene da considerare temporanea la stanzialità (visti i recenti trascorsi), motivo per cui l’ospitalità di Essen non può che farci estremo piacere; hic et nunc, quindi, Essen e adesso (ma speriamo anche domani).

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PEC è il nome della rubrica che di volta in volta vi offrirà spuntini di riflessione.

Riflessione su cosa? Su tutto, perché il cibo e la sua cultura hanno il meraviglioso potere di essere ponti verso ogni mondo, ogni ambito della conoscenza e, per contro, della naturale e sana ignoranza che ci spinge a curiosare, indagare, scoprire.

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E’ una lente attraverso cui filtrare il Mondo e i mondi che ne fanno, ne hanno fatto e, sempre, ne faranno parte.

Chiunque presenti uno scritto ci tiene a precisare che il testo in questione non sarà esaustivo per questa o quell’altra ragione, è un dovere (diritto?) dell’autore dal quale non vogliamo certo esimerci.

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PEC non sarà una rubrica enciclopedica, non abbiamo le conoscenze per mirare a tanto e non ci interessa, sapere già tutto toglie gran parte del divertimento. Ci auguriamo che dal confronto con voi emergano sempre nuove e interessanti conoscenze, vogliamoci bene e scambiamoci reciprocamente quel che sappiamo.

“PEC-cato che non avete parlato di questo, di quello e di quell’altro” ci direte; risponderemo “grazie, ottimo spuntino di riflessione per una prossima portata”.

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Veniamo a noi, ora.

Esodo, si diceva in apertura. Esodo e nomadismo non sono certo la stessa cosa, lo sappiamo bene, ma è palese come la condizione del movimento sia comune ad entrambi.

Gli Israeliti nel deserto, alla volta della Terra Promessa, ricevettero in dono la Manna, descritta come “una cosa minuta e granulosa, minuta come è la brina sulla terra […] simile al seme del coriandolo e bianca; aveva il sapore di una focaccia con miele”.

 

L’apparizione della Manna segue a breve distanza un altro pane biblico, la matzah, il pane azzimo della Pasqua ebraica, preparato e consumato prima della fuga dall’Egitto.

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Il pane “piatto” e non lievitato è rintracciabile con infinite varianti in tutte le culture del Mondo, così come la ritualità legata alla sua preparazione e al suo consumo. I significati spirituali, d’altra parte si sa, sono spesso strettamente connessi (quando non, addirittura, conseguenti) a situazioni contingenti, ed è innegabile l’immediatezza, la semplicità e l’universalità del gesto di mescolare assieme un po’ d’acqua e un cereale pestato.

Ogni cultura ha declinato quest’atto secondo le proprie possibilità e sfruttando le risorse a disposizione; il Mondo si è riempito di pani piatti – dalle Paratha delle montagne pakistane, ai Damper dell’outback australiano, dall’Aish Merarah egiziano ai Tunnbröd scandinavi, dalle Tortillas centro e sudamericane fino addirittura al Bing cinese – con la loro tipica e comune forma, circolare come il movimento senza fine dell’uomo nomade.

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Esodati, nomadi, rifugiati, chi parte e si lascia alle spalle qualcosa sa che qualcos’altro lo attende e due sentimenti ne pervaderanno l’animo: prima l’aspettativa, poi la nostalgia.

Li abbiamo tradotti in cibo, questi due sentimenti, qualche tempo fa, lavorando con una compagnia teatrale che portava in scena proprio il tema del “rifugiato”.

L’aspettativa porta con sé la sorpresa per il nuovo, la volontà di ri-adattare il proprio io ad un contesto inedito, un io che è pronto a farsi abbracciare da tutto ciò che l’ambiente ospite ci offre. La nostalgia è lo stesso io che si guarda indietro e ripensa con amara dolcezza a ciò che ormai non è più.

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Pensieri a ruota libera, libere associazioni tra cibi e parole scritte alla rinfusa su fogli sparsi in ogni angolo della cucina, la solita caleidoscopica e caotica massa di ingredienti, profumi, sapori che affollano la testa indistintamente, come comparse che si accalcano per un provino, tutte desiderose di diventare protagoniste. Un morso di qua, un sorso di là, la mente inizia a tracciare una forma e un ordine lentamente emerge dal caos; un percorso chiaro, dritto e saldo unisce i puntini, gli elementi giusti si riconoscono tra loro e si chiamano l’un l’altro, trovato il bandolo tutto si allinea velocemente a comporre una figura. Ora non resta che  provare, provare, provare, provare, provare (come ripeteva cantilenando una medievale Amanda Sandrelli all’innamorato Massimo Troisi nel bellissimo “Non ci resta che piangere”).

Giocare sulle consistenze, sulle temperature, sui sapori puri e su quelli ibridi, sulle materie prime e sui colori per creare qualcosa in grado di rappresentare i due sentimenti è stata una sfida difficile ed eccitante.

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Calda, dorata, fusion e un po’ speziata l’aspettativa; un ripieno insolito dentro un croccante guscio che solitamente altro contiene; la sorpresa dell’inaspettato, qualcosa che viene da casa abbracciato da qualcos’altro che viene dal nuovo, tutto avvolto in una crosta che sa di mondo globale. Fredda, nivea, struggente e agrodolce la nostalgia; un sapore talmente intenso da essere quasi scioccante, sprofonda le sue radici nella Terra d’origine e ne fa esplodere in bocca il ricordo in modo così prepotente da suscitare una lacrima di emozione. Chi li ha mangiati si è sorpreso, divertito, stordito, di certo non è rimasto indifferente; ha riso addentando la calda aspettativa e si è commosso provando la nostalgia…o forse… è stata solo la cipolla…naaah!

Friggione bolognese

4Kg di cipolle bianche, 300 gr. di pomodori pelati freschi, 1 cucchiaino di zucchero, 1 cucchiaino di sale grosso e 2 cucchiaini di strutto (ok, se proprio volete potete usare anche olio evo).

> Macerare con sale e zucchero per almeno due ore la cipolla tagliata finemente.

> Versare in un tegame di alluminio la cipolla (insieme all’acqua che avrà fatto) e lo strutto e cuocere a fuoco lentissimo mescolando fino a che la cipolla non sarà di un bel color nocciola (2 ore ca.)

> Aggiungere i pomodori tagliati a pezzi e continuare a mescolare fino a terminare la cottura (1 ora e mezzo ca.)

> Quando la consistenza sarà quella di una crema il Friggione è pronto.

Buon appetito e andateci piano!

Articolo pubblicato originariamente su ESSEN – A Taste Magazine