Let’s Rain è un progetto di arte pubblica socially engaged concepito con pratiche artistiche site and audience specific che prevede il coinvolgimento delle comunità attraverso l’attivazione di un dispositivo relazionale messo a punto dal collettivo artistico Panem Et Circenses con la curatela di Silvia Petronici e grazie ad un training con le sciamane maori Erena Rangimarie Rere Omaki e Sam Manawa Anna Maria Sartori.
L’Opera
Si comincia sempre dall’inizio.
All’inizio c’era un bosco.
Era un bosco misto, tipico del paesaggio appenninico delle nostre zone, castagni, pioppi, querce, roverelle, acacie, qualche carpino.
Dentro il bosco, sotto gli alberi, c’era quello che è normale pensare che ci sia dentro ad un bosco, sotto gli alberi, tra le altre cose uno stagno, probabilmente una pozza di accumulo scavata dai vecchi contadini per abbeverare le bestie, come era tipico fare quando l’acquedotto era una cosa di città e quassù i poderi dovevano essere autosufficienti per la sopravvivenza.
Sembra l’inizio di una favola e forse lo sarà.
Dentro al bosco e sotto gli alberi c’era uno stagno e c’erano i funghi, tanti funghi, “buoni da mangiare” come cantava De Gregori e come ci racconta sempre Costantino, il nostro vicino. Lui veniva a raccoglierli, è un grande conoscitore di funghi è una brava persona, siamo diventati subito amici, lui è la memoria di questo luogo.
È nato quassù, si ricorda tutto, suo nonno è stato fucilato dai nazisti qui, c’è un cippo che lo ricorda e ogni anno in Agosto fa dire una messa in memoria di chi venne ucciso a Ca’ di Bue, in uno dei tanti eccidi di montagna che non si contano nel nostro Appennino sul ripiegamento della linea gotica.
È nato quassù e andava a raccogliere i fichi dal grande albero che si trova a est della casa che era Ca’ de Magnani e che ora è Ca’ Inua, la casa dello “spirito di tutte le cose” (questo significa “inua” in lingua inuit), la nostra casa.
Il bosco dei funghi di Costantino e dello stagno che abbeverava le bestie non c’è più e non ci sono più i funghi e si è prosciugato lo stagno.
Non è la storia di una grande catastrofe, è l’immagine di un piccolo pezzo di bosco che c’era e non c’è più, è una traccia, un segno, uno scempio della Natura, la pochezza di persone piccole, un dramma che è grande e universale perché incarna la dimensione diffusa, tanto diffusa, della nostra disconnessione dalla Natura.
Lorenzo e Tommaso, nostri cari amici che hanno una casa sul versante nord della stessa montagna sulla quale viviamo, ci raccontano che si ricordano il rumore della motosega, incessante, per giorni e giorni, dalla mattina alla sera. Si ricordano passeggiate esplorative per capire cos’era tutto questo tagliare, si ricordano cataste e cataste di legna “che ti dovevi arrampicare per passare dall’altra parte”.
Questa storia è recente, non si va indietro di tanti anni, era il 2014 e la vecchia proprietà si era affidata ad un agronomo perché al posto di quel vecchio bosco improduttivo voleva impiantare un bel castagneto da frutto, i marroni di Montesevero li trovi anche a 12 euro al chilo in centro a Bologna.
“La prima operazione colturale da eseguire è il taglio raso di tutte le specie diverse dal castagno presenti nell’appezzamento, successivamente si procede alla rimozione di tutte le ceppaie delle suddette specie ed alla relativa movimentazione di terreno per colmare i buchi lasciati dall’estirpazione delle ceppaie. Allo stesso modo si procede con i castagni definibili irrecuperabili per i quali si eseguono tagli raso e la rimozione delle ceppaie” (dalla relazione dell’agronomo).
La prima operazione colturale è ELIMINARE gli alberi perché “il soprasuolo del castagneto si presenta in condizioni fortemente naturalizzate, in uno stadio di rinaturalizzazione molto avanzata” e questo è male.
Com’è come non è, insieme ai pioppi, le querce, le roverelle, le acacie e qualche carpino, alla fine sono andati giù anche i castagni, non è rimasto in piedi nulla, la motosega ha cantato per settimane, le cataste si sono accumulate, il bosco è scomparso.
Nel frattempo la vecchia proprietà si è trovata costretta a vendere e noi abbiamo raccolto, insieme alla meraviglia di questo luogo anche questa eredità triste e scellerata.
Siamo rimasti sgomenti la prima volta che abbiamo visto e capito cos’era successo, siamo rimasti sgomenti quando Costantino ce lo ha raccontato, siamo rimasti sgomenti quando Lorenzo e Tommaso ce lo hanno descritto.
Siamo rimasti sgomenti, poi siamo diventati tristi, poi ci siamo arrabbiati, poi è arrivata Erena che durante il seminario “Acqua che nutre” ci ha affidato un compito. Ci ha chiesto in qualità di artisti, che come tali hanno una responsabilità nei confronti del mondo e della società, di pensare ad un’opera d’arte che emergesse dall’esperienza seminariale.
“Acqua che nutre” nasceva da una richiesta di aiuto per la drammatica situazione siccitosa dell’estate scorsa, l’acqua nutre, l’acqua è la vita; la vita, noi, siamo acqua.
Tutta l’energia che c’era nella nostra rabbia ha subito un processo di trasformazione, ha mantenuto la sua intensità ma è diventata altro, è diventata prima desiderio e poi spinta all’azione, è diventata Let’s Rain.
Diffondere consapevolezza attraverso l’arte
Riconnettersi alla Madre Terra
Ritrovare il senso di comunità
di Silvia Petronici
Let’s Rain è un’azione estetica socialmente
impegnata.
Un progetto di arte pubblica nato a partire da un’esperienza del tutto particolare condivisa dagli artisti del collettivo Panem Et Circenses e da me con due donne di Medicina maori, Erena Rangimarie Rere Omaki e Sam Manawa Anna Maria Sartori.
L’attivazione di tutto il progetto è stato, infatti, un seminario nel quale, con la guida delle due sciamane, un gruppo di venti persone, operando a contatto con la Terra nei più diversi modi, ha fatto piovere. Letteralmente e anche simbolicamente.
La pioggia manca non solo nella sua sostanza fisica, come fenomeno meteorologico, ma il suo valore manca nella coscienza delle persone. Manca nella loro vita, nei gesti quotidiani e nelle visioni del futuro.
I cambiamenti del clima e la scarsità dell’acqua alle nostre latitudini invitano a cercare soluzioni per sviluppare una maggiore resilienza. L’arte, in particolare nella sua declinazione di arte pubblica site and audience specific, può essere uno strumento di questa ricerca e può esserlo soprattutto perché apre a dinamiche collettive e perché fonda la sua pratica sul rispetto, l’osservazione e l’ascolto. In questo senso, l’arte, così concepita e praticata, ricorda molto da vicino la pratica sciamanica e il suo fondarsi sull’esperienza della connessione di tutto il vivente e del legame intrinseco con l’ambiente vitale.
La pioggia sintetizza, anche a livello simbolico, il contatto tra il cielo e la terra, mostra con evidenza l’esistenza di una connessione continua tra tutto ciò che esiste e che, in quanto connesso, si riproduce, muta ed evolve. La progressiva disconnessione dovuta alla scarsità di pioggia è un pericolo: sul piano materiale, senz’altro, perché può generare una conseguente scarsità di cibo, ma anche sul piano simbolico e spirituale perché può generare una perdita del legame con il tutto che ci circonda, con la terra madre, con gli elementi di cui essa si compone e che sono ciò che noi stessi siamo.
Let’s Rain: facciamo piovere, lasciamo piovere ovvero creiamo le condizioni affinché possa piovere.
Condizioni esistenziali fondate nelle scelte e nei gesti della nostra vita ma anche condizioni culturali nella coscienza collettiva delle comunità che abitano la terra.
Si tratta complessivamente di un progetto che si colloca nella sfera socially engaged di quelle pratiche di partecipazione incluse in un approccio site and audience specific all’arte pubblica.
È un’azione collettiva che coinvolge una comunità di partecipanti in un percorso di gesti e obiettivi da raggiungere ma anche e soprattutto in un percorso di consapevolezza, di osservazione del proprio modo di entrare in confidenza con gli elementi della natura, di sentirsene parte. Un percorso di cambiamento da dentro a fuori.
Quest’anno la Biennale Internazionale dell’Arte di Venezia ci ha resi partecipi di una riflessione proprio su questi temi. La mostra curata da Christine Macel, Viva Arte Viva, in particolare nell’esposizione all’Arsenale, ha fatto il punto sulle pratiche di partecipazione nell’arte contemporanea, sul potente interesse per la natura e sul senso di comunità ad esso connesso che muove molti lavori socialmente impegnati così come il bisogno di elaborare poeticamente un diffuso, quotidiano e transculturale senso del sacro.
A questo proposito l’arte e lo sciamanesimo abitano uno spazio comune a partire dal quale gli artisti insieme agli sciamani delle più varie tradizioni, elaborano dispositivi estetici che toccano il cuore, muovono gli animi, i passi e i le azioni alla cura di sé e della terra, alla riconnessione e al contatto empatico.
Uno sciamano Huichol collabora con Anna Halprin per realizzare la sua poderosa Planetary Dance; Ernesto Neto lavora con i capi spirituali degli indios amazzonici Huni Kuin; Ayrson Heràclito documenta il Sacudimento, pratica spirituale per purificare le case dagli spiriti dei morti; Marcos Ávila Forero ricostruisce con la comunità afro-colombiana che abita lungo le sponde del fiume Atrato, la pratica perduta di percuotere l’acqua del fiume per comunicare.
La pioggia dentro e la pioggia fuori
Questo è il punto. Imparare, o forse ricordare, la connessione tra il sotto e il sopra, il dentro e il fuori, tra ciò che non si vede, che resta nascosto alla vista e ciò che risulta manifesto. Come si fa a chiamare la pioggia? Con più o meno ironia ce lo siamo chiesti tutti. Eppure alla fine ha piovuto e nevicato tantissimo.
Noi siamo fatti per la maggior parte di acqua e la questione in questo lavoro è muovere innanzitutto la consapevolezza di una connessione che si fonda sull’essere fatti della stessa sostanza, sull’essere insieme parte di uno stesso organismo vivente che ci abita e che abitiamo, che procede con noi, un passo dopo l’altro, nella vita del pianeta.
L’acqua dentro di noi chiama l’acqua fuori e piove perché questo ritorna ad essere chiaro.
La natura matrigna cede finalmente il passo alla natura madre. Le leopardiane magnifiche sorti e progressive di uno spietato e disconnesso individualismo prometeico e di una società fondata sul mercato, sullo sfruttamento incondizionato delle risorse, la proprietà e il sentimento di essere superiori agli esseri della natura, nel nuovo millennio post industriale, sono polvere che si disperde con il vento che porta la pioggia sulla madre terra. Si apre lo spazio per un nuovo approccio nei confronti dell’ambiente e della natura su cui fondare nuove pratiche di comprensione e di relazione. La natura, organismo vivente, ci include come una delle sue parti connesse in una fitta rete di interdipendenze, scambi, alleanze.
Agire nell’ambiente complessivo di questo organismo vivente significa produrre altre azioni, movimenti, reazioni. Significa influire sull’equilibrio del sistema.
Questo lavoro muove un senso di responsabilità pieno di speranza, un atteggiamento costruttivo che crede e realizza il cambiamento.
Il totem
Il dispositivo principale che attiva la relazione all’interno dell’opera è senz’altro il totem. Da sempre i popoli della terra hanno eretto totem, come ha detto una dei partecipanti all’azione collettiva, stupita e commossa di aver compiuto lo stesso gesto di milioni di persone in ogni parte del mondo e del tempo.
Studiando le tradizioni antiche dei pali rituali nelle diverse culture, gli artisti si sono confrontati fin da subito con i pali totemici dei nativi americani. La parola totem deriva dalla termine ototeman che nella lingua degli Ojibwa, popolo nativo della regione dei Grandi Laghi in nordamerica, significa “egli è della mia parentela”. Si tratta pertanto di un elemento la cui ragione è primariamente identitaria, aggregante e sociale nei termini di una cultura che fonda il senso di comunità sul legame parentale, tra gli uomini e tra essi e la natura.
È stato scelto un tronco di pioppo, trovato nella catasta degli alberi brutalmente tagliati e mai recuperati dai precedenti proprietari del podere. Scelta guidata dalle ragioni dell’opera, a sua volta, originata dal bisogno degli artisti di sanare le ferite e di prendersi cura di quel luogo, Ca’ Inua, del quale da poco sono divenuti custodi.
Populus, il nome latino del pioppo e contemporaneamente del popolo, è parso particolarmente evocativo agli artisti data la volontà di attivare una comunità partecipante dell’opera e, più in generale, di agire simbolicamente sulla responsabilità e l’azione condivisa. L’albero è un totem, cioè un oggetto implicato in una visione mistica della relazione con gli elementi, al centro di pratiche rituali e tribali, perché, evidentemente, data la sua stessa forma, il suo comportamento e la sua funzione nell’equilibrio complessivo degli ecosistemi culturali, garantisce il collegamento simbolico tra il cielo e la terra ma lo è anche perché, sul piano biologico, ha un ruolo fondamentale nel prodursi della pioggia garantendo il microclima necessario.
La scelta del totem pertanto aveva più livelli di coerenza con l’assunto fondamentale del progetto artistico Let’s Rain.
Il simbolo
Al totem serviva un intervento, un segno, che sintetizzasse la sua dimensione di gesto collettivo per chiamare la pioggia, luogo simbolico, antenna, testimone.
Si trattava di trovare un simbolo che condensasse l’intenzione, l’esperienza e le ragioni della comunità creata dall’opera durante l’azione collettiva: un’immagine di questa esperienza, in grado di mantenerla attiva, fornendo al totem stesso la carica necessaria al suo funzionamento.
Il simbolo, cos’ inteso, come elemento sintetico eccellente dell’opera, non poteva non derivare, a sua volta, da un processo di progettazione partecipata, che al termine dell’azione collettiva, ha consentito una raccolta di impressioni sull’esperienza appena conclusa dai partecipanti. Sono state raccolte parole, immagini, concetti, riflessioni, emozioni e racconti dai quali gli artisti in un’elaborazione immediatamente successiva hanno tratto la forma del simbolo. Al termine di un percorso articolato, prima ancora dell’elaborazione grafica, è emersa, grazie ad un’interpretazione emozionale (come la definiscono gli artisti) di tutti i contenuti raccolti, una frase che raccoglieva il senso di quanto condiviso da tutti, “MOVE YOUR INNER WATER”, alla quale poi, in seconda battuta, è stata affiancata, a completamento della prima, una seconda frase “TO MOVE THE OUTER WATER”. La prima parola e l’ultima delle due frasi, “Move” e “Water” – a loro volta, il senso di tutta l’opera – hanno composto il monogramma “MW” con le due lettere iniziali. Le lettere hanno evocato altre parole e altre associazioni, Mother Water, Man e Woman, Mountain e Wind, Music e Wave essendo, oltretutto, due segni speculari, l’una il perfetto doppio ribaltato dell’altra.
Entrando nella fase di composizione grafica del monogramma la forma è letteralmente emersa da molti tentativi andati a vuoto. Questo simbolo ha mostrato da subito la sua autonomia, una sorta di volontà pregressa incastonata in una sequenza stupefacente di coincidenze.
Un balzo, un fulmine.
E, a ben guardare, persino un’onda. Un’onda sonora, quella che, come descrive Schumann nel suo modello di risonanza, avvolge la Terra.
La risonanza di Schumann, prodotta da una vibrazione a frequenza molto bassa, circa 7.83 Hz, è conosciuta come il suono della Terra, derivato dall’interazione della superficie terrestre con la ionosfera. Questa interazione crea una struttura elettromagnetica in costante vibrazione grazie all’attività elettrica prodotta dai fulmini. E il simbolo, appunto, ha un aspetto molto simile alla stilizzazione elementare di un fulmine, luce nel cielo accesa dalle condizioni di umidità delle nuvole: l’innesco, una delle regole della pioggia, insieme alla presenza degli alberi, responsabili, a loro volta, dell’umidità che si accumula nelle nuvole.
A proposito della relazione principale su cui investe l’intero lavoro, quella tra il dentro e il fuori, la frequenza della risonanza di Schumann è la stessa delle onde elettromagnetiche prodotte dall’attività elettrica del tessuto nervoso nel sistema nervoso centrale: le onde cerebrali provenienti dall’attività del sistema limbico, in particolare le onde alfa e theta, implicate, le prime, nel rilassamento profondo e le seconde, nel fugace stato di passaggio tra la veglia e il sonno. In questo speciale stato, definito ipnagogico, si manifestano immagini, suoni e voci associate agli stati di trance ipnotica, alle percezioni extrasensoriali e in generale ad una maggiore prossimità ai contenuti inconsci normalmente isolati e inaccessibili. Liberando la mente dal pensiero cosciente che nella nostra cultura è inevitabilmente orientato da schemi concettuali di base logico-deduttiva ci si apre alla risonanza con tutto quanto ci circonda. È un’apertura mistica e profonda. È quanto questo lavoro si augura di raggiungere in un percorso di sempre maggiore ascolto, contatto e intimità. Il dentro e il fuori letteralmente entrano in risonanza. La pioggia dentro e la pioggia fuori, l’acqua profonda che muove le nuvole.
http://panemetcircens.es/respiro-2/ per ascoltare la vibrazione con cuffie stereo (per istruzioni e spiegazioni dettagliate si faccia riferimento al sito guruji.it)
Focus cibo
Dal cibo sorgono gli esseri,
la pioggia produce il cibo,
il sacrificio la pioggia,
e l’azione fa il sacrificio.
Bhagavadgītā, Canto del Beato, 14
Panem Et Circenses fonda per intero la propria ricerca sulla dimensione relazionale del cibo. Una dimensione puntuale e costante sulla semantica del cibo, i comportamenti e i sentimenti ad esso associati. Il collettivo indaga da anni questi aspetti del cibo a partire da un’analisi della sua forma derivata e linguisticamente stratificata di costrutto culturale e per questo soggetto, nella nostra cultura, ad un progressivo allontanamento dalle sue origini materiali e simboliche nella terra.
Let’s Rain nasce dal desiderio di esplicitare il collegamento tra siccità e scarsità di cibo aprendo lo spazio, con un processo di pratiche artistiche relazionali e partecipate, al tema della responsabilità e a quello conseguente dell’azione per il cambiamento.
Mangiare insieme i prodotti della terra dove ci trovavamo durante l’azione collettiva come bere l’acqua durante la fruizione dell’installazione ha significato per gli artisti cogliere l’occasione di associare valori condivisi e intenzioni ad un’esperienza consapevole di contatto con la terra, con l’ambiente circostante da cui deriva e di cui è fatto il cibo.
Il futuro
Let’s Rain intende proseguire come ciclo di residenze in diverse sedi europee a diretto contatto con le comunità locali, gli artisti e le istituzioni interessate ai temi della sostenibilità ambientale, dell’acqua e del rapporto ecosintonico tra noi e l’ambiente. Let’s Rain si svilupperà, dunque, come progetto itinerante in diverse sedi in Europa fino a giungere in Nuova Zelanda chiudendo il cerchio aperto con i maori, nativi della Nuova Zelanda, grazie all’arrivo delle due sciamane per il seminario a Ca’ Inua, sede della prima azione collettiva di Let’s Rain.
Installazione al Centro per l’Arte Contemporanea sulla Cultura Alimentare
Scheda dell’opera.
LET’S RAIN, Panem Et Circenses
Opera partecipata composta da un’azione collettiva e un’installazione site specific.
L’azione collettiva è stata realizzata domenica 12 novembre a Ca’ Inua, nell’area di Marzabotto sull’Appennino Bolognese, dalle ore 10.00 del mattino fino alle 18.00, alla presenza di quaranta persone partecipanti. L’installazione è realizzata e presentata il 15 dicembre a Bologna nello spazio di ricerca e sperimentazione diretto da Panem Et Circenses, Centro di Arte Contemporanea sulla Cultura Alimentare, il C.A.C.C.A. in Via Solferino, 33/a.
Durante l’azione è stato eretto un tronco di pioppo, privato dei rami e delle radici, in forma di totem di 8 m di altezza, sistemato in un buco profondo 2 m precedentemente scavato a mano. Sono state indossate dai partecipanti mantelle e cappucci realizzati dagli artisti in materiale impermeabile di colore rosso acceso. Era presente all’azione Sam Manawa, una delle due sciamane maori con cui è stato realizzato il seminario dal quale il progetto Let’s Rain ha avuto inizio; Sam Manawa ha eseguito un canto tradizionale, karanga che in lingua maori significa letteralmente chiamata, con il quale si è aperto il lavoro al mattino. È stato consumato un pasto a base di verdura, pane, formaggio e miele di produttori locali e, infine, sono state raccolte impressioni e suggestioni per la realizzazione di un simbolo da apporre sul totem.
Nel momento immediatamente successivo all’erezione del totem è stato realizzato uno scatto fotografico dal quale si è tratta l’immagine simbolo del progetto. Questa immagine, dove intorno al totem ci sono tutti i partecipanti all’azione con in dosso le mantelle rosse, è stata stampata su plexiglass ed è un elemento importante dell’installazione. In essa sono presenti anche le mantelle utilizzate durante l’azione, un video con l’intervista ad Erena Rangimarie Rere Omaki realizzata durante il seminario di settembre e il simbolo da apporre sul totem realizzato dagli artisti a partire dalle impressioni raccolte insieme ai partecipanti all’azione. Il simbolo è stato realizzato in ferro ed è accompagnato da un file audio che diffonde un suono composto da onde alfa.
L’azione collettiva si è svolta con la partecipazione di molte persone che sono state coinvolte dagli artisti attraverso un dispositivo di partecipazione realizzato appositamente per ciascuno: un invito personale recapitato a tutti singolarmente (per tramite della posta ordinaria, della posta elettronica, dell’informazione diramata dai social network e a mano) contenente un piccolo testo scritto a mano per ciascun invitato e un testo, uguale per tutti, di motivazioni che introduce al contesto e alle ragioni dell’azione con un’immagine, un pezzo di legno dalla forma di nuvola, che sintetizza il legame tra gli alberi (il totem) e la pioggia.
Nei giorni che hanno seguito l’azione gli artisti hanno dato corso all’elaborazione, a partire dagli elementi forniti dalla condivisione dell’esperienza con i partecipanti, di un simbolo da apporre sul totem già eretto.
Da questo processo di riflessione e rielaborazione è emersa una forma che contiene le impressioni di tutti: è un’onda sonora, un ponte, una montagna, ci sono le iniziali di Mother e Water, il simbolo della pioggia e del fuoco, l’equilibrio e l’alternanza, è un lampo, un sopra e un sotto, un dentro e un fuori, una relazione e una via, un richiamo e una traccia.
L’installazione ha sia una funzione narrativa che poetica.
Si parla, da un lato, dell’esperienza dell’azione collettiva e, dall’altro, del suo senso.
Gli elementi – che compongono un ambiente complessivo – provengono dall’azione e ne sono una sua elaborazione a posteriori compiuta al fine di comprenderne il senso e condividerlo.
Conclusioni
La condivisione è un tema centrale alla base del progetto che, fin dal titolo, si pone come opera partecipata, pratica estetica collettiva.
Let’s Rain è, in sé, uno statement compiuto.
Volevamo far piovere e volevamo farlo insieme a una comunità di partecipanti che condividesse con noi i valori e le pratiche che animano questo lavoro.
Abbiamo scelto di impegnare il linguaggio dell’arte per diffondere consapevolezza sui temi ambientali, in particolare sul tema dell’acqua come veicolo fondamentale della vita, elemento di connessione e rigenerazione.
Volevamo indurre una nuova esperienza della pioggia, a partire dalla coscienza del legame intrinseco (spirituale e simbolico) e del legame estrinseco (nei comportamenti e nelle scelte pratiche quotidiane) che ci lega ad essa, alla sua scarsità o abbondanza, al suo consentire e mutare la qualità della nostra vita sulla terra.
Oggi, quando guardo il cielo sopra la cima degli alberi, cerco le nuvole. La mia percezione è cambiata come le convinzioni che la animano. Spero che piova. Anche il mio cuore è cambiato. Chiama la pioggia e non cerca riparo.
Ringraziamenti
Let’s Rain è un progetto di arte pubblica socially engaged concepito con pratiche artistiche site and audience specific che prevede il coinvolgimento delle comunità attraverso l’attivazione di un dispositivo relazionale messo a punto dal collettivo artistico Panem Et Circenses con la curatela di Silvia Petronici e grazie ad un training con le sciamane maori Erena Rangimarie Rere Omaki e Sam Manawa Anna Maria Sartori.
Let’s Rain ha avuto origine a partire dal seminario Acqua che nutre tenuto da Erena Rangimarie Rere Omaki e Sam Manawa Anna Maria Sartori a Ca’ Inua nel comune di Marzabotto (BO) nei primi tre giorni di settembre 2017.
Let’s Rain (Ca’ Inua, Marzabotto (BO), 12 novembre 2017 e Centro per l’Arte Contemporanea sulla Cultura Alimentare, Bologna, 15 dicembre 2017 – 20 gennaio 2018) è un progetto realizzato grazie al contributo di Donatella Zarotti e L’Isola D’Oro S.r.l.
La virtuosa committenza di una stampa Fine Art dell’immagine simbolo del progetto ha consentito il finanziamento delle spese di produzione.
Si ringraziano di vero cuore i partecipanti all’azione collettiva: Silvia, Anna, Virginia, Giovanna, Gea, Benedetta, David, Lothar, Alessandro, Matteo, Lorenzo, Michele, Stefano, Marco, Elisabetta, Matteo, Gauri, Barbara, Ilenia, Marco, Lorenzo, Angela, Sky, Thomas, Giammarco, Andrea, Francesco, Simone, Rachele, Lorenzo, Maria Elena, Mattia, Francesca, Mikis, Guido, Anna.
Un grazie particolare a Erena che ha ispirato questo lavoro, Sam Manwa che ci ha guidati e si è fatta nostro strumento d’azione, Gigi per i materiali delle mantelle, Giovanna per la zuppa, Alessia De Ninno per la videoripresa dell’intervista ad Erena.
Credits
Panem Et Circenses, collettivo artistico composto dagli artisti Alessandra Ivul e Ludovico Pensato (www.panemetcircens.es – www.ilcacca.org)
Silvia Petronici, curatore (www.silviapetronici.eu)
Sam Manawa Anna Maria Sartori, donna di medicina maori
La principessa Erena Rangimarie Rere Omaki Rhose, Dottoressa in Medicina Tradizionale Maori, docente di Ecosofia all’Università di Karlstad in Svezia e ambasciatrice dei diritti della Terra, da anni è impegnata in molti paesi del mondo per la sensibilizzazione delle persone, attraverso conferenze e seminari, sul valore e la sacralità dell’acqua e sulla riconnessione con la Madre Terra. Si deve anche al suo lavoro lo straordinario riconoscimento da parte del Governo Neozelandese dello statuto di persona al Fiume Whanganui con il quale Erena ha stretti legami familiari.
Figlia di capo tribù Ngati Kahungunu (tribù del Falco), appartiene alla famiglia della Regina Maori della tribù Waikato, di cui è anche donna di medicina. Il suo nome le fu dato dagli anziani e significa: Bilanciamento, Pace, Volo attraverso la Luce. In quanto primogenita ed unica donna della famiglia, fu affidata agli anziani, che l’hanno sostenuta nello sviluppo delle sue doti e nel radicamento nella tradizione antica le cui origini risalgono al “tempo della memoria”. Per potenziare la connessione profonda con Madre Terra all’età di sette anni, sotto la guida del prozio Korobush, trascorse tre notti e tre giorni sepolta sotto terra. All’età di nove anni tornò dai suoi genitori e proseguì la sua istruzione sulle cerimonie, sulle conoscenze e sui segreti tramandati da generazione in generazione.
Il popolo Maori è popolo guerriero la cui cultura si basa sull’amore e la pace, la più importante conoscenza che Erena condivide è la connessione con Madre Terra, l’Amore, la pace, la Guarigione e la Spiritualità. E’ stata invitata in tutto il mondo a parlare in diverse conferenze su concetto della Terra, Madre Terra, ed è stata ospite di molti leader spirituali come il Dalai Lama del Tibet, Amrita Nanda May-India, David Swallow della Nazione Lakota, Papa Elie Hien Sciamano del Burkina Faso, Nardia Steppenova sciamana della Mongolia.
Sam Manawa nata in Nuova Zelanda, appartiene alla tribù Tainui – Waikato e Aotea – Taranaki. Vive e lavora in Italia.
Sam Manawa, unisce le due radici della sua provenienza maori e italiana. Manawa in lingua Maori significa cuore, luogo degli affetti. La parola è composta da “Mana” che si riferisce al potere spirituale di ciascuno di noi e “Wa” che significa spazio e tempo definiti.
Mantenendo il contatto con il suo Whakapapa (genealogia) ha approfondito la sua cultura studiando con Erena Rangimarie Rere Omaki sua cugina, attraverso viaggi e seminari da 17 anni. Si è specializzata sul lavoro del corpo attraverso il massaggio. Con Atarangi Muru in Nuova Zelanda ha approfondito la conoscenza dei due principali metodi del Maori Healing, Miri-Miri e Romi-Romi. Pratica varie tipologie di massaggi e cerimonie per la persona. Porta con sé gli elementi legati alla terra di appartenenza: acqua e fuoco, uniti a pace e resistenza.
Qui potete vedere un’intervista a Erena Rangimarie Rere Omaki che ha avuto luogo a Ca’ Inua durante il seminario “Acqua che nutre”. Ringraziamo Alessia de Ninno per le immagini.
In questa sezione potete raggiungere i link degli articoli usciti sul blog di Panem Et Circenses relativi all’opera Let’s Rain.