Ristorante al faro, dal 1917

Ristorante al faro è un’opera partecipata che gioca sulla costruzione di un immaginario. Seduti all’unico tavolo del ristorante, una bianca parete come schermo su cui proiettare le proprie immagini, il partecipante ordina un piatto dal menu, in tavola viene servito il dono di farsi raccontare una favola. Chi ha più tempo da adulto di farsi raccontare le favole? Un vero regalo, con una piccola sorpresa finale.


L’Opera

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Lo scheletro di un tavolo e quello di una sedia sono posizionati lungo il muro di cinta bianco sul lato sinistro del cortile del faro. Ridipinti dello stesso color sabbia usato per decorare con grossi scacchi irregolari l’edifico appena restaurato, fronteggiano la parete bianca di fresco.

Sul tavolo un menu semi aperto che aspetta l’avventore.

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Il menu è essenziale, sei piatti, sei storie.

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Durante l’azione, indossando abiti riferibili ai ruoli del maitre di sala e del cuoco, uno dei performer invita i partecipanti a sedersi sulla sedia al tavolo e a scegliere dal menu uno dei sei piatti proposti.

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Una volta  scelto, il performer/cuoco, posizionandosi alle spalle del “cliente” gli racconta, bisbigliando all’orecchio, la narrazione del piatto, ossia una storia immaginaria legata ad elementi e oggetti concreti del luogo, con i quali gli artisti sono entrati in contatto durante la residenza. Alla fine del racconto il maitre inviterà il partecipante a raccontare a sua volta la storia ascoltata e ad accettare un dono della casa in cibo, come simbolo dello scambio avvenuto.

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L’opera parte dalla considerazione che la frazione di Bibione si è sviluppata ex novo in tempi recentissimi, sotto la spinta di una sempre crescente domanda turistica e che quindi non abbia un remoto passato nell’ambito di peculiari tradizioni gastronomiche. Il faro è l’elemento antropico più antico della zona, costruito nel 1917.

In un luogo con una così spiccata vocazione turistica la forma del ristorante (come dichiarato nel titolo) è perfettamente integrata nel paesaggio esistente.  La differenza consiste nel fatto che questo è un ristorante immaginario e ciò che si offre nella scelta del menu sono storie.  Visioni e immaginazione attivate da un contesto installativo surreale e dal contributo letterario degli artisti, sono il cibo offerto dal Ristorante al faro.  Temi come la riduzione della pescosità, la coltivazione di un prodotto tipico come l’asparago bianco,  l’invito alla conservazione degli equilibri naturali nella produzione stessa del cibo, alla tutela dei rapporti reciproci tra le specie e, in definitiva, l’amore per la terra intesa come terra madre oltre che come territorio di espansione delle attività umane, sono il contenuto nutritivo dei piatti offerti poeticamente dagli artisti.


Studio

Analisi del contesto

“Ristorante al Faro, dal 1917” nasce dalla residenza artistica Sense of Community #14 ideata dal curatore indipendente Silvia Petronici. L’obiettivo di questa residenza è riattivare le reti sociali e le connessioni tra le persone e il territorio. Attraverso la pratica artistica site specific gli artisti sono chiamati ad indagare i rapporti e le storie che legano le persone al luogo e al territorio che ospita la residenza, riattivando interesse e affezione verso aspetti meno noti e interessanti della memoria collettiva. Il luogo, il faro di Bibione, costruito vicino alla foce del fiume Tagliamento ai margini del parco fluviale naturalistico, si presta ad un lavoro sull’immaginario. Il faro è simbolo, è limite e confine, è avamposto, è luogo di storie fantastiche.

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Citazioni/parole chiave

immaginario, favola, faro, tradizione, territorio,

“Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?”

Joseph Conrad

Riferimenti 

Questo è lo schema concettuale dal quale siamo partiti per la costruzione delle sei storie.

riferimenti-Storie

L’obiettivo è stato la creazione di un immaginario attraverso la definizione di un’ontologia degli elementi che lo compongono: Elementi Naturali Universali a cui attribuiamo VITA e caratteristiche antropomorfe; Elementi Naturali Particolari (animali, piante, minerali) considerati nel nostro caso specifico come NUTRIMENTO, come CIBO; Elementi Geografici come riferimenti spaziali; Elementi Umani, ossia attività, forme, oggetti legati alla sfera degli uomini intesa come specie animale distinta; Elementi Mitologici/Narrativi già esistenti, come per esempio Santi, proverbi, ricette, modi di dire.

Ricerca iconografica

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La ricerca e il focus cibo

In Ristorante al Faro dal 1917 abbiamo ricreato l’esoscheletro della dinamica di fruizione tipica di un ristorante. Del tavolo e della sedia rimane solo la struttura in ferro, delle pagine del menu solo la trasparenza, delle persone che lavorano in esso (cuoco e maitre) sono la formalità di un abito che ne richiama il ruolo. Il cibo materiale scompare del tutto per lasciare spazio alla sua sola narrazione. Non una narrazione gourmand (tanto di moda oggi) della ricetta o delle storie dei suoi ingredienti ma la narrazione di una favola.

Ogni favola è un piatto. Ogni piatto del giorno è accompagnato da una connotazione gustativa che ne descrive il sapore in termini letterari e che identifica i gusti dell’avventore.

Il cibo di Ristorante al Faro dal 1917 è un cibo da leggere a voce alta. Vi invitiamo a farlo, soprattutto se qualcuno vi sta ascoltando.

1. IL PESCE DEL GIORNO – dolce e amaro

2. SCACCHI MATTI – 95 fogli scomposti

3. DUNE –  qualcosa di esotico

4. IL GUARDIANO DEL FARO – il grande classico

5. STURIONE – delicatessen

6. CONFINE – zuppa dell’alleanza

1. Il pesce del giorno

dolce e amaro

In un tempo lontano viveva un mistico eremita che mangiava i frutti della terra, ne godeva con animo lieto e faceva sogni predittivi straordinari e le genti venivano a lui per chiedergli dei suoi sogni.

Viveva sulla foce del fiume ed un giorno un ricco mercante, per ingraziarsi una sua visione gli portò in dono un cibo elegante e raffinato, preparato con ingredienti esotici e ricercati mescolati in un tripudio sofisticato di sapori su richiesta specifica del ricco mercante.

Il mistico, persona amabile e delicata non poté rifiutare il dono e ne mangiò alla presenza del mercante che soddisfatto lo salutò, pregustando la visione che un così nobile cibo avrebbe portato all’eremita.

Il mistico quella notte, come tutte le notti ebbe un sogno.

Sognò una grande clessidra in vetro soffiato, montata su una struttura di legno d’ebano nero.

Non aveva sabbia, bensì acqua per segnare il tempo.

Dalle tenebre del sogno emerse un pesce, le squame brillanti lampeggiavano nel buio ad ogni colpo di coda; il pesce si avvicinò alla clessidra le girò attorno tre volte e poi, nel riprendere il suo percorso con un ultimo colpo di coda la rovesciò facendo sobbalzare il mistico.

L’acqua iniziò a stillare goccia a goccia dal minuscolo foro scandendo il tempo al ritmo di un cuore che batte, di un respiro lento, dapprima, via via più veloce.

Il pesce si avvicinò e così parlò: “uomo” – disse guardandolo negli occhi “quello che a te è sembrato un accidente causato da un maldestro movimento della mia coda è in realtà un messaggio, verrà un tempo in cui non sarà più l’acqua a prendersi cura di te, verrà un tempo in cui sarai tu a doverti prendere cura di lei, quel tempo verrà, quando dovrai girare la clessidra che io a causa tua ho dovuto avviare”.

2. Scacchi matti

95 fogli scomposti

C’era un volta un bambino che giocava sulla spiaggia. Era il figlio del guardiano del faro, un uomo umile che amava il suo mestiere, sua moglie era la cuoca del Re e viveva lontano dal marito e dal figlio nella grande reggia in mezzo al mare.

Il bambino era felice, aveva una fervida immaginazione e una mente sveglia e giocava da solo come fosse in compagnia ma gli mancava la sua mamma.

Un giorno il padre gli fece un regalo: una bellissima scacchiera che aveva costruito per lui usando polvere di conchiglie e sabbia per fare le caselle e le pedine. Il bianco era di perla e l’ocra calda riluceva colo dell’oro. Era sicuramente la scacchiera più bella che fosse mai stata costruita.

Il Re venne a sapere di questa meraviglia e decise che voleva possederla.

Andò alla spiaggia e trovò il bambino che stava sistemando le pedine per giocare una partita di scacchi contro un gabbiano che lo guardava di sottecchi dalla cima di un grosso masso sulla riva.

Il Re si avvicinò al bambino e gli disse: “bambino, la tua scacchiera è certamente la scacchiera più bella che sia mai stata costruita, è degna di un re, io sono il Re, dunque perché non me la doni?”

Il bambino rispose: “Signore, questa scacchiera l’ha costruita mio padre usando delle semplici conchiglie e un po’ di sabbia, niente che un grande Re come voi non possa chiedere ad uno dei suoi migliori artigiani, ma se è proprio questa che volete vi propongo una sfida: giocate con me, se vincete vi donerò la scacchiera, se perdete farete tornare a casa mia madre”.

Il Re sorpreso dall’audacia del piccolo accettò con piacere, pensando che non sarebbe stato difficile battere un fanciullo.

Al contrario ad ogni mossa del sovrano il bambino rispondeva con grande astuzia e in men che non si dica il Re perse la partita.

Incredulo e adirato per essere stato sconfitto il Re scaraventò la scacchiera contro la casa del guardiano del faro; la tavola andò in frantumi sulle pareti dell’edificio che da allora rimase a scacchi irregolari bianchi e ocra. Quella sera la madre del bambino tornò a casa e preparò al figlio un grande e buonissimo dolce con tante sfoglie croccanti color oro e una sofficissima panna bianca come perle tra ogni strato.

3. Dune

qualcosa di esotico

Quando la Serenissima Repubblica di Venezia dominava i mari la città era un crocevia di genti, di colori, di profumi e di storie.

Una di queste storie racconta di un mercante del lontano Oriente che solcava i mari dalla Cina all’Olanda con la sua Xiangliao, una magnifica giunca a due alberi carica di spezie preziose, merce ricercatissima dalla nobiltà di tutt’Europa.

Correva l’anno 1564, l’inverno era stato rigido ma la primavera era ormai giunta, la terra germogliava e i mari sfogavano le ultime mareggiate sempre più di rado.

Bi-Bi-Ho, questo era il nome dell’abile e avido mercante della nobiltà dei sette mari, era ripartito dal Cairo ormai da tre settimane ed intravedeva la costa di Venezia che si estendeva senza soluzione ovunque lo sguardo abbracciasse la terra. Negli ultimi giorni il vigore che lo accompagnava sempre nei suoi lunghi viaggi lo aveva un po’ abbandonato, si sentiva stanco, reggeva a fatica il mare e voleva sbarcare al più presto: i forzieri veneziani carichi di ducati d’oro avrebbero sostituito egregiamente le sue preziose fragranze ed era sicuro che anche la sua salute ne avrebbe giovato.

Il giorno volgeva al termine ed era in arrivo da sud-est una tempesta di Scirocco, ma Bi-Bi-Ho non voleva più restare in mare e contro il parere del comandante e del nostromo decise di entrare in porto ugualmente sperando di anticipare il maltempo.

La giunca venne investita quando si trovava a circa venti miglia ad est dalla città, la china resistente ed elastica, grande vanto dell’ingegneria navale cinese, mandava urla profonde stritolata dalle correnti, le vele dell’albero di trinchetto furono divelte dal vento e l’albero maestro colpito da un fulmine si abbattè con uno schianto di fuoco sul ponte nello stesso momento in cui la nave oramai senza controllo, le sue novecento tonnellate sbattute dalle onde come un uovo strapazzato, finiva rovinosamente su un banco di scogli appena sotto sotto la superficie aprendo un enorme squarcio nello scafo  facendo esplodere il fasciame. Un lungo tremito scosse tutta la nave dalla prua sottile fino alla poppa, ci fu un momento in cui tutto sembrò sospeso nel silenzio, poi lo scafo si spezzò con un boato. Furono attimi e della magnifica Xiangliao non rimase traccia, solo un miracolo permise a Bi-Bi-Ho e a qualche uomo dell’equipaggio di trovare la salvezza su una piccola scialuppa che scaraventata dai flutti riuscì a toccare terra di lì a pochi minuti.

L’indomani il commerciante colto da pazzia per la perdita della nave e delle sue spezie preziose iniziò a scavare a mani nude nella sabbia tutt’intorno in una vana ricerca di qualsiasi cosa potesse essersi salvata del suo prezioso carico. Scavava, scavava, scavava Bi-Bi-Ho, scavò per molti giorni e molte notti, facendo buche tanto profonde che la sabbia che si gettava alle spalle creava altissime dune sulla spiaggia. Scavò per il resto della sua vita su quella spiaggia, non trovò mai nulla del suo carico ma chiunque passasse da quelle parti si fermava a rimirare da lontano la sorprendente bellezza delle dune della spiaggia di Bi-Bi-Ho.

4. Il guardiano del faro

il grande classico

All’inizio dell’Alto Medioevo viveva su una piccola isola un giovane marinaio che amava l’orizzonte infinito del mare, le navigazioni tempestose e il silenzio contemplativo. Quest’ultimo lo amava a tal punto che per poterne godere a pieno si fece monaco in un convento benedettino sulla sua piccola isola. Il suo nome era Venerio, forse perché era nato nella costellazione di Venere o forse perché era nato di Venerdì, fatto sta che il monaco Venerio, pur amando il silenzio non si tirava mai indietro quando c’era da aiutare gli uomini e visto che viveva su una piccola isola gli uomini erano per la grande maggioranza pescatori e lui, da esperto lupo di mare, dispensava ottimi consigli di navigazione, di pesca… e di cucina. “Ora et labora” recita la regola benedettina e Venerio “laborava” di gran lena aiutando i pescatori a montare sulle loro barche  vele di sua invenzione e altri marchingegni che rendevano la navigazione più agile e sicura.

Venerio era un uomo solitario perché molto riflessivo ma ogni tanto si concedeva qualche ottimo pasto frugale in compagnia anche se aveva perfino deciso di vivere da eremita. Voleva bene agli uomini, però; pensate che una volta, per semplice amore fraterno, si mise in mare da solo su una piccola barchetta a remi durante una violenta libecciata e scacciò addirittura un grande pesce dragone che si divertiva a far naufragare piccole imbarcazioni a largo dell’isola. Tra preghiera,  letture, contemplazioni solitarie, lavori di carpenteria navale e salvataggi Venerio trovava anche il tempo di cucinare, amava farlo, soprattutto d’estate, quando le erbe erano rigogliose e mandavano un profumo irresistibile.

Una sera di fine estate si trovava su un promontorio a cogliere le ultime erbe della stagione per  preparare una stravagante ricetta che gli aveva tramandato la nonna: si trattava di pestare insieme le foglie verdi con i pinoli e un po’ di aglio e mescolare questo condimento a piccoli impasti di acqua e farina fatti arrostire su un falò.

Aveva già acceso un fuocherello, le fiamme scaldavano la tiepida notte che avanzava uniformando con il suo manto scuro piante animali uomini e mare, quando vide negli ultimi fiochi spazzi di crepuscolo un’imbarcazione in lontananza che navigava alla cieca in direzione di un banco di scogli invisibili nel buio. Venerio provò a urlare e a sbracciarsi ma la distanza era troppa per essere udito e la luce ormai nulla perché i suoi gesti fossero visti.

Tolse di corsa la graticola dal fuoco e rinforzò la fiamma con tutta la legna che aveva a disposizione, vi gettò in mezzo anche i suoi abiti di iuta e l’intero contenuto di una piccola fiasca di vino buono che si era tenuto da parte per quell’occasione. Il fuoco gettò una fiammata e divampò alto sopra la sua testa illuminando la superficie del mare e permettendo ai naviganti di evitare gli scogli proprio all’ultimo momento. Quella notte Venerio rinunciò al suo pasto ma tanto si saziò dell’aver salvato quelle vite che da allora prese ad accendere grandi falò sul promontorio nelle notti senza luna per guidare i naviganti al sicuro nel porto.

Accese centinaia di fuochi e mangiò per tante altre estati quello stravagante condimento tramandato dalla nonna.

5. Sturione

delicatessen

In un tempo lontano, vivevano nelle acque della laguna gli storioni, pesci incredibili che non avevano uno scheletro di osso bensì di cartilagine; erano pesci primordiali parlavano la stessa lingua dei dinosauri perché con loro avevano vissuto e a loro erano sopravvissuti perché la grande acqua li aveva protetti da ogni cosa. Vivevano la loro vita nella acque profonde del mare Adriatico e risalivano il fiume Tagliamento quando veniva il momento di deporre le uova.

In quel tempo e in quel luogo giunse un gruppo di ominidi, nomadi cacciatori e raccoglitori, che fuggiva dai climi rigidi delle montagne in cerca di condizioni di vita più agevoli.

Arrivati sulla foce del grande fiume, tanto fu lo sgomento e il terrore per quell’immensa distesa di acqua che si parò davanti ai loro occhi vergini che senza voltarsi, con gli sguardi piantati sul blu infinito, come se volessero esser certi che quell’immensità non li avrebbe inseguiti per inghiottirli, fecero marcia indietro e a passo di gambero arretrarono nell’entroterra fino a che la grande acqua non scomparve dalla loro vista.

Lì si stabilirono, perché il clima era magnanimo, la vegetazione rigogliosa e gli animali abbondanti.

Non avevano più bisogno di spostarsi per procacciarsi il cibo, quel luogo offriva tutto e lo faceva in maniera così semplice e abbondante che gli ominidi cominciarono ad annoiarsi.

Una di loro, con un germe di evoluzione in più rispetto ai compagni, un giorno pensò che se nelle acque piccole c’erano pesci piccoli nella grande acqua ci sarebbero sicuramente stati pesci grandi e pesci grandi voleva dire tanto cibo.

Così si avventurò fino alla fine degli alberi, da dove poteva vedere la grande acqua rimanendo nascosta; si accucciò dietro al folto di un cespuglio e aspettò. Nell’attesa si accorse che tra i rami di quel cespuglio sbucavano dal terreno dei lunghi steli color verde-violaceo che si assottigliavano verso la sommità in una piccola punta che sembrava di piccole lingue di un verde più brillante.

L’ominide curiosa ne strappò uno e lo mise in bocca, questo era il loro modo di conoscere il mondo.

Il piccolo stelo era croccante e sulle prime amarognolo ma masticandolo sprigionava una piccola quantità di un succo piacevole e leggermente zuccherino. Mentre era intenta a queste considerazioni  di gusto vide che la superficie della grande acqua ribolliva, si sporse un po’ dal suo nascondiglio e notò che dei grandi pesci con una specie di corazza piano piano imboccavano la foce del fiume e ne iniziavano la risalita.

Aveva ragione, nella grande acqua c’erano i grandi pesci, ma la cosa che non si aspettava e che la sorprese fu che i grandi pesci entravano nella piccola acqua; “sarà ancora più facile cacciarli nella piccola acqua” pensò “già, ma come, visto che il loro corpo è coperto da corazze sulle quali le nostre lance andranno in frantumi?”.

Faceva questi pensieri rigirandosi il resto del piccolo stelo verde tra le mani quando le venne in mente che forse avrebbe potuto usare proprio quel dolce frutto della terra per cacciare i grandi pesci corazzati, d’altra parte se era tanto buono per lei avrebbe potuto esserlo anche per loro.

Così legò all’estremità di una liana un po’ di quei sottili frutti in una piccola fascina dentro cui nascose un ferro ricurvo accuminato e la gettò nel fiume, attese qualche minuto, poi un forte strattone le fece quasi perdere l’equilibrio e finire in acqua ma agile sulle gambe l’ominide tirò all’indietro con tutta la forza che aveva e con uno spumeggiante schizzo uno di quei grossi pesci corazzati saltò fuori dall’acqua e ricadde sulla sponda erbosa del fiume.

L’ominide soddisfatta decise di non portare l’animale ai compagni senza prima averne saggiato la qualità delle carni e così accese un fuoco e arrostì il pesce lì dove lo aveva preso.

Il sapore le esplose in bocca, fu un’estasi, la carne grassa e morbida del pesce si era mescolata al sapore dolce amaro dei piccoli steli verdi-violacei che avevano conservato tutta la loro croccantezza.

Entusiasta per quella giornata corse dai compagni per condividere con loro il resto del pasto e la gioia di quella scoperta e invenzione: la gastronomia.

6. Confine

zuppa dell’alleanza

C’era un tempo in cui gli uomini vivevano in pace tra loro e in armonia con la Natura.

In questo tempo il popolo delle montagne, quello del mare, quello dei fiumi, quello delle pianure e quello dell’aria si incontravano ogni trecento anni nello stesso luogo, al confine degli elementi, e vivevano insieme per trenta giorni per rinsaldare alleanze, stringere patti, rendere grazie agli elementi, festeggiare la vita e ossequiare la morte.

I popoli parlavano lingue diverse ma quando si trovavano al grande concilio preparavano un immenso fuoco su cui cucinare una grande zuppa: era la zuppa dell’alleanza e ne mangiavano tutti per trenta giorni e per trenta giorni tutti parlavano la stessa lingua, era la lingua degli alberi e delle piante, la lingua degli animali e delle pietre, la lingua dei venti e delle acque, la lingua con cui si parlava al grande concilio.

Per preparare la zuppa dell’alleanza ogni popolo recava con se un ingrediente specifico che si tramandava di generazione in generazione e che era distintivo di ogni popolazione.

Così il popolo delle montagne portava un sale che si trovava solo nelle profondità della terra dove le tenebre lasciavano spazio alla luce del calore del magma eterno, il popolo del mare e quello dei fiumi mescolavano le loro acque, l’una veniva dal luogo in cui nascevano tutti i mari, l’occhio di Ega le cui lacrime formavano le acque salate, un turbine eterno al centro degli oceani; l’altra sgorgava dalla sorgente del cielo, sulla cima del monte Uranothen persa tra le nubi perenni. Il popolo delle pianure portava il rizoturion una radice agrodolce spontanea che cresceva nella sabbia da tempi immemori e più se ne raccoglieva e più cresceva rigogliosa, forte e sempre tenera, un frutto simbolo dell’equilibrio e dell’armonia della Natura.

Il popolo dell’aria infine aveva sviluppato un sistema per incamerare un’essenza speciale, in una minuscola ampolla di vetro soffiato recava con sé l’essenza del fuoco; una volta aperta sopra l’immenso calderone dove sobbolliva la zuppa la piccola ampolla sprigionava tutta l’intensità del suo contenuto che riempiva l’aria e inebriava gli spiriti per tutto il tempo del concilio.

E così per trenta giorni i popoli riuniti mangiavano, parlavano, amavano, dormivano, rendevano grazie agli elementi e rendevano grazie gli uni agli altri perché ognuno di essi aveva assolto il proprio compito di guardiano della Natura per preservarne la bellezza che sola continuava a governare l’equilibrio del mondo.

Per trenta giorni ogni trecento anni i popoli riuniti nel grande concilio accendevano un immenso fuoco e mangiavano la zuppa dell’alleanza nel luogo dove il mare, la montagna, il fiume, l’aria e le pianure si incontrano al confine degli elementi.