Mæn-Hiər è un lavoro sul pane e sulla sua analogia con il menhir, primo elemento/gesto architettonico artificiale con cui l’uomo modifica lo spazio e crea un luogo.
Il pane è il primo cibo “creato” dall’uomo con delle tecniche di trasformazione della materia prima e perciò è il menhir dell’alimentazione.
L’Opera
Nell’Iliade e nell’Odissea l’espressione “mangiatori di pane” è sinonimo di “uomini”.
Nell’epopea di Gilgamesh l’eroe Enkidu si affranca dal suo stato primitivo e selvaggio solo quando apprende dell’esistenza del pane per mezzo di una donna, una prostituta per l’esattezza, consegnando alla figura femminile il ruolo di custode del sapere alimentare oltre che della sessualità.
Il pane è il simbolo dell’uscita dell’uomo da uno stato bestiale, della conquista di una “civiltà”.
La conquista di questa civiltà passa per l’evoluzione della società umana.
Le comunità di cacciatori-raccoglitori nomadi si trasformano lentamente nel corso della “rivoluzione neolitica” in società agricole sedentarie che agiscono sul territorio in cui vivono in maniera più evidente di quanto facessero i loro predecessori: l’uomo non si adegua più alle condizioni imposte dall’ambiente, interviene su di esso a proprio vantaggio, lo modifica, crea il paesaggio attraverso le proprie azioni e secondo le proprie esigenze.
In questo “contesto culturale” le società agricole elaborano l’idea di “uomo civile” che costruisce artificialmente il proprio cibo, un cibo che non esiste in natura e che segna la differenza tra NATURA e CULTURA.
L’agricoltura è vista in molti miti fondatori come un gesto di violenza nei confronti della Madre Terra; l’aratro che ferisce il terreno, l’irrigazione che forza i corsi d’acqua, la semina che costringe la spontaneità.
I riti di fertilità hanno una valenza (implicita o esplicita che sia) spesso espiatoria di questa colpa, espiazione che si compie nel momento della buona riuscita dello sforzo agricolo senza la quale lo stupro della Terra sarebbe vano, rendendo il gesto pura violenza e la colpa insostenibile.
Il menhir è coevo dell’evoluzione stanziale dell’uomo, esso modifica lo spazio e lo rende luogo, costruisce un significato nello spazio e nel tempo circostanti, è frutto di un’esperienza e risultato di una volontà di affermazione dell’uomo e del suo passaggio.
È il primo segno architettonico dell’uomo “civile”.
Il pane è il menhir dell’alimentazione, ciò che la trasforma in cucina: l’uomo civile è qui, lo segnala con una pietra lunga e fa il pane. Mæn-hiǝ!
L’opera Mæn-hiə consiste di due elementi: l’installazione “Mæn-hiə, l’uomo è qui” e la performance “Mæn-hiə, mangiatori di pane”.
L’installazione “Mæn-hiə, l’uomo è qui” è composta da sei stampe fotografiche ognuna con un simbolo disegnato a mano, che reagisce alla lampada di wood. Questa illuminazione cambia il colore della stampa, facendolo virare dal verde al giallo – stesso passaggio cromatico del grano nel suo processo di maturazione – e conferisce all’opera un attributo tecnologico.
“Mæn-hiə, mangiatori di pane” è un’azione relazionale. Quattro coni di terracotta realizzati a mano dentro i quali è stato cotto un impasto di pane sono collocati su un piano. Attorno a questi elementi si attiva un momento performativo durante il quale il collettivo interpreta il passo dell’Epopea di Gilgamesh nel quale la conoscenza passa dalla donna all’uomo. Il culmine dell’azione si tocca con la rottura di uno dei coni al cui interno un pane cotto al forno verrà prima mangiato dall’uomo stesso e poi offerto in maniera rituale al pubblico.
Studio
Analisi del contesto
Mæn-Hiər, nelle sue premesse concettuali, si sviluppa nell’ambito del progetto curatoriale di Silvia Petronici MENHIR, rivolto al Museo del Paesaggio di Torre di Mosto, purtroppo mai realizzato.
Panem Et Circenses nei mesi successi decide di procedere comunque, seguito dal curatore, alla formalizzazione dell’opera che verrà presentata in un allestimento site specific a Setup Contemporary Art Fair.
Citazioni
“Enkidu sapeva solo suggere il latte degli animali selvatici. Annaspò maldestro, stette a bocca aperta, e non sapeva cosa fare o come dovesse mangiare il pane e bere il vino forte. Disse allora la donna: «Enkidu, mangia il pane, è il bastone della vita; bevi il vino, è l’uso del paese». Così mangiò finché non fu sazio e bevve vino forte, sette calici. Divenne allegro, il suo cuore esultò e il suo viso brillò. Lisciò i peli arruffati del suo corpo e si unse con olio. Enkidu era diventato un uomo.”
Riferimenti
L’Epopea di Gilgameŝ; Pane Egizio rituale.
Iconografia
I sei simboli scelti per essere disegnati sulle stampe sono tutti relativi al mondo del pane.
La Terra, la mezza luna fertile, luogo dove tradizionalmente si narra abbia avuto origine la civiltà.
La Forma, intesa nel senso platonico del vero essere, rappresentata qui dal triangolo come trasposizione bidimensionale del cono. Il pane conico era un pane rituale egiziano cotto nella terra cotta.
La Vita, ossia la fermentazione batterica, grazie alla quale il pane lievita. Rappresentato dal Saccharomyces Cerevisiae.
L’Acqua, identificata dal fiume Nilo, nei suoi confini territoriali egiziani come chiaro riferimento al luogo dove molti storici dell’alimentazione ritengono che intorno al 2600 a.C. si sia iniziato a panificare con una certa continuità.
La Parola, BEKOS. BEKOS significa Pane in Frigio antico. L’abbiamo scelta dopo aver letto un aneddoto che Erodoto narra nelle sue Storie.
Il faraone Psammetico I volendo stabilire quale fosse la lingua originaria dell’umanità. A questo scopo ordinò che due bambini fossero allevati da un pastore, proibendo che essi udissero anche una sola parola, e incaricandolo di riferirgli la prima parola pronunciata dai due bambini. Dopo due anni il pastore riferì che entrando nella loro camera, i bambini andarono da lui stendendo le mani e chiedendo bekos. Facendo una ricerca, il faraone scoprì che questa era la parola frigia per indicare il pane di farina di grano, al che gli egiziani ammisero che i frigi fossero una nazione più antica della loro. .
Il Simbolo, ossia il geroglifico egizio che nella translitterazione di Gardiner sta per la parola Hotep. Significa “essere soddisfatti, in pace” ed è composto da un piano (un tavolo dell’offerta) su cui poggia una forma conica (un pane rituale).
Il geroglifico, per noi, è rappresentativo della natura intrinsecamente collegata del pane con il suo significato e ruolo rituale.
Focus Cibo
Per Mæn-hiə abbiamo fatto il pane.
Siamo partiti da una ricerca storica alle origini della panificazione. Non è possibile, come per quasi tutti i processi immateriali, collocare univocamente questo momento nelle righe della storia ma la maggioranza degli storici dell’alimentazione è concorde nell’assegnare un ruolo di primo piano alla cultura egizia dell’Antico Regno nel periodo della III Dinastia, attorno al 2600 a.C.
Per gli egizi il pane aveva un ruolo, documentato, fortemente rituale e si hanno tracce di una forma e tipologia di pane specifica, conica, che veniva cotta al sole in stampi di terracotta e poi utilizzata nei riti di fertilità.
Abbiamo quindi realizzato gli stampi conici sulla falsariga di quelli egizi nel laboratorio di un amico ceramista, Nadir, con il quale abbiamo rielaborato le forme originali, adattandole ad una cottura in un forno professionale, e ragionato sui trattamenti per l’uso alimentare scegliendo i bagni in olio extra vergine di oliva e successiva asciugature per rendere elastica la materia; l’applicazione di un foro sull’estremità ci ha garantito lo sfiato del vapore in cottura.
Per l’impasto abbiamo lavorato con lo chef Stefano Rebuli, nostro partner di cucina in diverse occasioni, scegliendo di utilizzare un grano della famiglia del monococco. Si tratta di grani antichi, giunti fino a noi non modificati né ibridati da migliaia di anni di sperimentazione agricola umana. Come molti dei grani antichi anche il triticum monococco è povero della proteina del glutine, che agevola la lievitazione. Sono servite diverse prove di cucina per ottenere una miscela di farine abbastanza attiva da permettere una buona lievitazione all’interno del cono.
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